LIBRO

fabio deotto
30.11.2010

Altro che uomini. Mezz’uomini, forse ominicchi, forse meno. Sono i boss raccontati nel libro di Giulio Cavalli: Nomi, cognomi e infami (244 pagine, Edizioni Ambiente). È il boss Gaetano Badalamenti, detto Tano Seduto, che non riesce a sopportare la satira (e l’impegno politico) di Peppino Impastato. È Toto Riina, detto u’curtu, che nelle fiction televisive cavalca cavalli bianchi, mentre nella realtà è basso, paonazzo e non azzecca un congiuntivo. È Bernardo Provenzano, detto u’tratturi, il boss dei boss, che aveva un potere enorme ma era costretto a rintanarsi come un topo tra coppole, santini e canzoni dei Puffi.

.Giulio Cavalli, attore teatrale, da quattro anni porta sul palcoscenico tragedie tutte italiane. Ha debuttato nel 2007 con Linate: 8 ottobre 2001, la strage. Da allora si è concentrato sulle mafie italiane, sulla loro ubiquità, a Gela come a Lodi. Come arma della sua lotta alla mafia ha scelto la parola, anzi la risata. Un’arma inusuale, ma che gli ha permesso di raggiungere migliaia di persone. Da due anni vive sotto scorta. I carabinieri lo accompagnano ovunque vada, su e giù per l’Italia, in una vita che assomiglia sempre di più a un’inarrestabile toruneè.
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In Nomi, cognomi e infami, che raccoglie i monologhi del suo ultimo anno di tour, non c’è soltanto Cosa Nostra e la Sicilia. C’è la ‘Ndrangheta che da decenni stringe i suoi artigli su Milano e ora si affila le unghie in vista dell’Expo. C’è Bruno Caccia e la sua lotta contro i clan calabresi a Torino, stroncata da 17 pallottole nel giugno dell’83. C’è Casal di Principe e l’opera immortale di Don Diana. Ci sono i ragazzi di Addio Pizzo. C’è una Lodi inaspettatamente contaminata dalle mafie, e tutti quegli altri luoghi del Nord, del Sud e del Centro dove lo stato non esiste, e allora la mafia dilaga. Una mafia che da anni interloquisce con la politica, e che ha fatto della politica prima un campo di espansione e ora uno strumento del suo business.
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Ma nel libro di Cavalli ci sono anche gli uomini veri, tanti uomini veri. Giornalisti con la schiena dritta, che muoiono troppo giovani e con troppe parole ancora da sputare in faccia all’omertà. Sindaci neo-eletti che come primo atto licenziano la moglie di un boss, rea di scaldare una sedia all’Ufficio Ecologia. Sono i magistrati che accettano una gabbia fatta di terrore pur di non chiudersi in una gabbia di silenzio. Sono i parroci che si insediano negli immobili sequestrati alla mafia, e con pacata fermezza, salvano il mondo un giorno alla volta; e troppo spesso pagano con la vita per la libertà di tutti.
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Non c’è niente da ridere. E proprio per questo le disonoranti risate di Peppino Impastato verso Tano Badalamenti, come quelle di Giulio Cavalli verso gli stiddari di Gela, sono così pericolose. Sono risate che aprono la mente, costringono ad alzare la testa e guardare in faccia quegli “uomini da due soldi che si sono martellati addosso una sagoma spaventosa, ma di cartone“, a sostituire “l’onore di polistirolo” dei boss mafiosi con l’onore vero di chi, accerchiato dalle umanissime paure e dalla irrinunciabile scorta, trova la forza di ridere e liberarsi.
Perché, alla fine, Cavalli ha ragione. Ridere della mafia “è una ribellione incontrollabile“.
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