Lévi-Strauss, perché i giapponesi lavorano al contrario

Anche gli artigiani esprimono la cultura "centripeta" del Paese. Le considerazioni del grande antropologo in tre lezioni inedite

Marco Belpoliti
22.12.2010
Il Giappone era un paese che interessava molto a Claude Lévi-Strauss. Ci aveva compiuto vari viaggi, in particolare negli Anni Ottanta, andando anche a visitare il suo gemello, la Corea del Sud.
Poi nell’aprile del 1986 la Fondazione Ishizaka lo invita a tenere tre lezioni intitolate: L’antropologie face aux problèmes du monde moderne. (L’antropologia di fronte ai problemi del mondo moderno). Rimaste a lungo inedite, salvo una traduzione parziale in giapponese, ora escono per la prima volta in una lingua occidentale, direttamente in italiano: Lezioni giapponesi (a cura di Lorenzo Scillitani, Rubettino, 14 euro, 150 pag.).
Si tratta di un testo in cui, davanti a un pubblico di orientali, il grande antropologo, scomparso centenario un anno fa, affronta una serie di scottanti questioni del contemporaneo: l’identità, il razzismo, la fecondazione assistita, il lavoro, l’alimentazione. La sua preoccupazione essenziale è quella di mantenere aperto il dialogo tra le culture senza che tuttavia si perdano le differenze tra loro: la diversità nell’identità.
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Lévi-Strauss, autore del più bel libro di viaggi dell’ultimo secolo, Tristi tropici, apparso nel 1954, dedicato all’ascesa e al declino delle civiltà umane, oltre che ai ricordi della sua vita di antropologo e viaggiatore, è un critico acuto del melting pot, oggi uno dei capisaldi del «politicamente corretto», ed è anche nemico sia dell’assimilazione sia del conformismo culturale che sembrano diventati, nei ventiquattro anni trascorsi dai suoi interventi davanti al pubblico di Tokyo, realtà incontrovertibili della globalizzazione. L’asserto fondamentale da cui parte è che «ogni cultura particolare, e l’insieme delle culture, di cui è fatta tutta l’umanità, possa sussistere e prosperare solo secondo un duplice ritmo di apertura e di chiusura, sia sfasate l’una in rapporto all’altra, sia coesistenti nella durata».


L’antropologo de Il pensiero selvaggio spiega ai suoi ospiti che ogni cultura, per essere originale, deve essere fedele a se stessa, al prezzo di una certa sordità a valori differenti, verso cui deve restare insensibile in modo parziale o anche totale. Insensibile, ma non disattenta. Del resto, sei anni dopo queste affermazioni, Lévi-Strauss pubblica su Le Monde un articolo sulla cultura del Sol Levante, dove analizza la propensione degli artigiani giapponesi, ceramisti, falegnami, a compiere movimenti rovesciati rispetto a quelli occidentali: non dall’interno verso l’esterno, bensì da fuori a dentro; il c.entripeto giapponese contrapposto al centrifugo degli europei.
Analizzando poi il termine uchi (casa, stanza riposta, interno), l’antropologo parigino osserva che la cultura di quel paese è una sorta di via intermedia tra l’occidente e le altre culture orientali. Il Giappone quale terza via: chiuso in se stesso ma assolutamente aperto verso le novità dell’occidente, un paese e un popolo «che non si è consegnato, mani e piedi legati, a un modello straniero, ma si è temporaneamente allontanato dal suo centro di gravità spirituale solo per poterlo meglio tutelare proteggendo la sua orbita», afferma nella terza delle lezioni, là dove si avvia alle conclusioni. .
Gli è perfettamente chiaro, lo dice invece nell’esordio, che la cultura occidentale si trova in una situazione di crisi, poiché ha perduto il modello che si era data da sé e non osa più offrirne alle altre. E fa una serie di esempi interessanti, esaminando quelli che sono i «fondamentali» delle culture umane (parentela, lavoro, residenza, alimenti), non senza aver specificato che lo sguardo dell’antropologo deve essere come quello dell’attore del Teatro No: «imparare a vedere se stesso come se fosse lo spettatore».
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L’esigenza primaria delle civiltà umane è di riprodursi, ossia di conservarsi nella durata; per questo presso molti popoli non esiste la differenza tra la filiazione dipendente dal legame biologico e quella fondata sul legame sociale. Descrive alcune civiltà, e fa l’esempio dei Samo, nel Burkina Faso, in cui il primo figlio della coppia matrimoniale è generato dal rapporto tra la donna e l’amante ufficiale, che è obbligata scegliersi per due anni come preparazione al matrimonio stesso.
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Uteri a prestito, coppie omosessuali che allevano figli, dopo aver praticato la fecondazione assistita, famiglie in cui i bambini sono figli di più madri e più padri, mostrano come i problemi morali sollevati in Europa negli ultimi anni siano il frutto di assolutismi che non valgono altrove, e che nei ragionamenti di Lévi-Strauss appaiono quali regole sociali relative alla nostra civiltà, non iscritte nel patrimonio biologico: la natura umana è il prodotto, da un lato, della biologia e delle sue costrizioni e, dall’altro, delle tradizioni e delle convenzioni che ci siamo dati. .
Il compito degli antropologi, chiosa il padre dello strutturalismo, è quello di mostrare i possibili «universali» della natura umana, e insieme d’indicare i possibili processi che possono svilupparsi, senza bollarli a priori come deviazioni da un ordine morale o perversioni.
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Le parti dedicate al lavoro umano sono illuminanti: «l’uomo non è puramente e semplicemente spinto a produrre sempre di più». Le società primitive «ci insegnano che ci sono principi che permettono di convertire la quantità delle ricchezze prodotte in valori morali e sociali».
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Il suo è un insegnamento politico che viene da lontano, ma sembra guardare più lontano ancora, grazie alla sua consuetudine con i miti remoti. Davvero, nonostante siano trascorsi parecchi anni, queste lezioni non appaiono invecchiate. Ci permettono di gettare uno sguardo intelligibile verso il futuro anteriore che ci attende.