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Ecco perché lo stress cronico
induce alla depressione


Bassi livelli di una proteina riducono la plasticità cerebrale rendendo l’individuo
più soggetto alla depressione

31.01.2011

Non basta lo stress che dobbiamo sopportare ogni giorno o in certi periodi della vita particolarmente difficili. Spesso ci si mette anche di mezzo anche la depressione. Ma per quale motivo accade che in certe persone, evidentemente predisposte, in seguito allo stress cronico insorge anche la depressione?


Una nuova ricerca giapponese tenta di spiegare come alti livelli di stress possono influire sulle funzioni cerebrali predisponendo la persona alla depressione (così come pare avvenga consumando cibi ricchi di grassi – vedi articolo).

A farlo sono stati i ricercatori della Yamaguchi University che hanno monitorato i meccanismi molecolari, incredibilmente complessi, che sono associati allo stress cronico.

«Molti individui esposti a eventi stressanti non mostrano segni o sintomi di depressione, tuttavia, alcuni individui esposti a stress psicologico sono più predisposti alla depressione maggiore», spiega il dottor Yoshifumi Watanabe, autore principale dello studio.

«Finora, i meccanismi molecolari alla base della suscettibilità e l'adattamento allo stress cronico all'interno del cervello non si conoscevano bene», continua Watanabe.

Per cercare di spiegarli, Watanabe e colleghi, durante la ricerca ha utilizzato due gruppi di topi differenti a livello genetico. Ogni gruppo presentava delle differenze di comportamento in caso di stress cronico. Gli scienziati hanno potuto notare che il gruppo di topi maggiormente vulnerabile allo stress sviluppava comportamenti depressivi anche se esposto a un piccolo stress, a differenza degli altri che erano meno suscettibili anche allo stress. I topi maggiormente vulnerabili mostravano anche un livello inferiore del GDNF, ovvero del fattore neutrofico derivato (Brain-derived neurotrophic factor). Questo fattore è conosciuto da tempo per la sua importanza nella regolazione della plasticità cerebrale. Esso sembra svolgere un ruolo fondamentale nella depressione.

Livelli bassi della proteina GDNF sembrano essere il risultato della metilazione del Dna (modificazione epigenetica) e della relativa modificazione degli istoni, delle particolari proteine associate ai cromosomi.

Tali modificazioni genetiche possono essere invertite attraverso l’ausilio degli antidepressivi, con i quali, ovviamente, s’intende ridurre anche il livello di depressione.

«Le regolazioni della dinamica epigenetica del gene GDNF svolgono un ruolo importante nel determinare sia la sensibilità che le risposte di adattamento a eventi stressanti cronici», conclude Shusaku Uchida sulle pagine della rivista Neuron, su cui è stato pubblicato lo studi.

www.stampa.it
La depressione è "scritta" nei geni
Uno studio spazza via ogni dubbio

Un team di ricercatori Usa ha preso in esame 54 studi e ha confermato il legame tra Dna e male di vivere. Contraddetto così un precedente lavoro, pubblicato su Jama nel 2009, che aveva messo in  dubbio le basi genetiche della malattia

di ADELE SARNO
04.01.2011

ROMA - Vincent van Gogh e Richard Nixon, Alain Delon e Nicole Kidman, dalla pittura alla politica passando per lo spettacolo, la depressione è come un filo rosso che lega milioni di persone. Una nuova ricerca rivela ora che in realtà la causa del male di vivere può essere nascosta tra le "pieghe" del Dna e che nell'insorgere della malattia, accanto agli eventi traumatici "esterni", tutto dipende da un gene, chiamato 5-HTT. Gli scienziati dell'University of Michigan (Usa) riaprono dunque una questione dibattuta da decenni, affermando, dopo aver comparato 54 studi sull'argomento, il collegamento tra un Dna e depressione.
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Lo studio appena pubblicato su Archives of General Psychiatry 1 contraddice un precedente lavoro del 2009 che aveva messo in dubbio le basi genetiche del male di vivere, riaprendo così il dibattito su una delle tematiche più importanti affrontate dalla medicina del ventunesimo secolo. Un team di esperti in genetica, statistica ed epidemiologia aveva pubblicato sul Journal of the american medical association 2 (Jama) i risultati di un'analisi di 14 rilevanti pubblicazioni che valutavano l'interazione tra Dna, eventi stressanti e sviluppo della depressione.

"Dalla nostra analisi  -  scrivevano i ricercatori nel 2009  -  non emerge una correlazione significativa del genotipo del gene in questione con la depressione, né con la suscettibilità agli eventi stressanti della vita".   A sua volta, la ricerca di Jama aveva contestato uno studio del 2003 che aveva preso in esame la storia clinica di 847 persone e la sequenza di un gene che controlla il trasporto del neurotrasmettitore serotonina, ovvero la "molecola del buonumore". Il risultato era stato che c'era un rischio maggiore di sviluppare uno stato depressivo tra chi aveva una versione più corta del gene. Questo rendeva più vulnerabili le persone agli eventi stressanti della vita, dal divorzio a un lutto, dalla menopausa a una malattia prolungata.

Oggi Today Srijan Sen e i suoi colleghi psichiatri della University of Michigan Medical School presentano una nuova e più estesa metanalisi. Lo studio infatti analizza 54 ricerche, tutte portate avanti fra il 2001 e il 2009, raccolte su PubMed, per un totale di circa 41mila pazienti presi in esame. Stando ai risultati, appare evidente il legame tra il gene 5-HTTLPR, lo stress e la depressione.

In altre parole, una particolare variante di un gene indebolisce i circuiti cerebrali che elaborano le emozioni negative, ne altera il funzionamento e scatena il rischio di sviluppare la depressione, soprattutto in presenza di eventi stressanti. Questa ricerca potrebbe portare alla ricostruzione della carta d'identità genetica della depressione, aprendo così la strada al controllo di questa malattia che, secondo le stime dell'Organizzazione mondiale della sanità, entro il 2020 potrebbe essere la seconda patologia più diffusa nel mondo dopo i disturbi cardiovascolari.

Secondo Sen, non ci sono dubbi: "Avendo incluso tutti gli studi più pertinenti sull'argomento, possiamo confermare che il corredo genetico di un individuo fa la differenza nel modo in cui lui o lei risponde allo stress". Una notizia accolta con entusiasmo anche dagli autori della ricerca del 2003: "L'accurato e sistematico approccio utilizzato dai colleghi dell'ateneo del Michigan  -  ha commentato uno di loro, Terrie Moffitt della Duke University - dimostra perché, al contrario, l'indagine pubblicata su 'Jama' fosse limitata".