Mostrando postagens com marcador economia. Mostrar todas as postagens
Mostrando postagens com marcador economia. Mostrar todas as postagens
John Maynard Keynes

Quattro libri rilanciano le teorie dell’economista britannico.

A difenderlo è Giorgio La Malfa,
ad accusarlo Franco Reviglio, Francesco Forte e Hunter Lewis

por Luca Ricolfi
07.01.2011
Foto - John Maynard Keynes (Cambridge, 5 giugno 1883 – Tilton, 21 aprile 1946), considerato uno dei più grandi economisti del XX secolo

Dopo qualche decennio di sordina, il pensiero di Keynes è tornato al centro dell’attenzione, non solo fra gli economisti. La ragione è semplice: per uscire dalla crisi i Paesi sviluppati stanno adottando politiche essenzialmente keynesiane, ma non tutti gli esperti sono convinti che funzioneranno.
.
Di qui la moltiplicazione di libri che tornano sul pensiero di Keynes, sulla sua visione del capitalismo, sulle sue ricette di politica economica, a partire dalle due fondamentali: ridurre i tassi di interesse, aumentare la spesa pubblica, anche in deficit. Una riflessione che si fa particolarmente interessante, per non dire inquietante, allorché ci si accorge che non solo manca qualsiasi accordo sulla bontà delle ricette keynesiane, ma non c’è consenso neppure su che cosa Keynes avrebbe veramente detto, e ancor meno sulla natura delle politiche economiche che ci hanno condotto alla crisi attuale.

E allora il modo migliore di entrare nel vivo, per il lettore curioso, è di partire da Keynes stesso. Magari cominciando dalla selezione dei suoi scritti proposta da Giorgio La Malfa, con il titolo Sono un liberale?, ripreso da un saggio del 1925 (Sono un liberale?, Adelphi 2010).
.
La raccolta spazia negli ambiti più diversi, e si lascia apprezzare anche per la scrittura incisiva, spesso polemica, con cui Keynes affronta i vari argomenti, talvolta a contenuto prevalentemente accademico (come nei saggi su Marshall, Malthus, Newton), talaltra legati all’attualità politica ed economica del suo tempo: le riparazioni di guerra, i partiti politici, l’economia russa, la fine del gold standard.
.
La breve introduzione di La Malfa, da sempre studioso e ammiratore di Keynes, non manca di offrirci la sua personale lettura della crisi attuale: per La Malfa la crisi del 2007-2009 ha le sue radici nell’abbandono delle politiche keynesiane durante il trentennio liberista (da Reagan e Thatcher in poi), e perciò il superamento della crisi - che a suo parere ora sarebbe finalmente in corso - è strettamente legato al ritorno a Keynes.

Un parere alquanto diverso sulla bontà delle ricette keynesiane si può ritrovare in un altro libro su Keynes, anch’esso uscito nell’anno appena trascorso, a firma Franco Reviglio, economista illustre, ex senatore ed ex ministro, già presidente-amministratore delegato dell’Eni (Goodbye Keynes?, Guerini 2010).
.
Autore già nel 1977 di un libro profetico, in cui avvertiva che l’eccessiva espansione della spesa pubblica avrebbe condotto l’Italia alla stagnazione (Spesa pubblica e stagnazione dell’economia italiana, Il Mulino 1977), Reviglio non pare affatto fiducioso nelle politiche espansive propugnate dai seguaci di Keynes, e richiama i numerosi studi che hanno mostrato gli effetti negativi che il debito esercita sulla crescita, specie allorché il rapporto debito/Pil supera il 90%.

Ma la critica più impietosa dell’edificio keynesiano proviene da un terzo libro su Keynes, uscito in inglese nel 2009 e da poco tradotto anche in Italia grazie all’Istituto Bruno Leoni (Hunter Lewis, Tutti gli errori di Keynes, IBL 2010).
.
Preceduto da un denso saggio di Francesco Forte, il libro di Hunter Lewis ricostruisce minuziosamente il pensiero di Keynes, le sue oscillazioni, le sue incoerenze, per approdare a una diagnosi tanto severa quanto sorprendente, almeno rispetto alle idee oggi dominanti. Secondo Lewis, non solo le ricette keynesiane attualmente in voga non funzionano, ma è proprio grazie ad esse che le economie dei Paesi sviluppati sono precipitate nella crisi.
.
Contrariamente a quanto sentiamo ripetere da alcuni decenni, l’era del turbocapitalismo, del «pensiero unico», della controrivoluzione monetarista, del liberismo selvaggio, è stata molto più keynesiana di quanto i seguaci di Keynes siano oggi disposti ad ammettere.
.
Privatizzazioni e deregolamentazioni, capisaldi della controrivoluzione liberista, si sono spesso mescolati con ingredienti di matrice keynesiana, come i bassi tassi di interesse e la spesa pubblica in deficit, dando luogo a un cocktail inedito, o se preferite a un keynesismo «paradossale», per riprendere la felice espressione coniata da Riccardo Bellofiore nella sua introduzione al classico testo di Minsky su Keynes, molto tempestivamente ripubblicato da Bollati Boringhieri (John Maynard Keynes e l’instabilità del capitalismo, Bollati Boringhieri 2009).

Secondo Lewis, che in parte riprende proprio le analisi di Minsky, le crisi degli ultimi decenni hanno per lo più seguito un tipico pattern keynesiano: credito facile, bassi tassi di interesse, spesa pubblica in deficit, aumento del valore degli asset (case e azioni), inflazione, stretta del credito, recessione.

Insomma, Keynes non sarebbe il rimedio, ma semmai l’origine della crisi attuale.

Una ricostruzione, quella di Lewis, che rovescia il senso comune tuttora prevalente, per cui i governi conservatori sarebbero ultra-liberisti, mentre quelli progressisti sarebbero keynesiani. E che trova conferma nell’analisi storica dei deficit pubblici: nella deriva espansiva degli ultimi decenni, assai poco attenta all’equilibrio di bilancio, i governi ultra-liberisti di Reagan-Bush (senior) e Thatcher-Major si sono dimostrati spesso più disinvolti dei loro successori progressisti, Bill Clinton negli Stati Uniti e Tony Blair nel Regno Unito.

Insomma il puzzle keynesiano resta più che mai tale. I quattro libri di Keynes, Reviglio, Lewis e Minsky non lo risolvono, ma sicuramente aguzzano l’ingegno del lettore. 


A Spanish Bailout Would Test Europe’s Strained Finances

By Raphael Minder, Madrid
24.11. 2010
Foto - Juanjo Martin/EFE - Elena Salgado, Spain’s finance minister, right, and Alfredo Pérez Rubalcaba, a deputy prime minister, at a meeting about employment this month.

MADRID — Europe so far has survived the bailout of Greece. The financial rescue of Ireland also is manageable. Even if Portugal becomes the third country to succumb and seek aid, as many people widely predict, it is unlikely to push Europe to the financial brink.
.
But any bailout of Spain — with an economy twice the size of the other three combined — could severely stress the ability of Europe’s stronger countries to help the financially weaker ones, and spell deep trouble for the euro, Europe’s common currency. Even though Spain, like Ireland, has adopted an austerity plan to help it avoid the need for a bailout, it still could need aid if its banking system proves frailer than the government thinks it is, as was the case in Ireland.
.
This troubling possibility has unnerved lenders, with Spain’s borrowing costs rising even though Madrid has cut its deficit and the country’s banks maintain they have sufficient strength to absorb their bad real estate loans. “Europe can afford the collapse of Ireland, even perhaps that of Portugal, but not that of Spain, so Spain’s ultimate line of defense is in fact this knowledge that it’s too big to fail and that it represents a systemic risk for the euro,” said Pablo Vázquez, an economist at the Fundación de Estudios de Economía Aplicada, a research institute here.
.
Reflecting the worries of investors, the yield spread between Spanish 10-year government bonds and those of Germany continued to widen on Wednesday — to as high as 2.59 percentage points, the biggest gap since the introduction of the euro. Spreads typically widen when investors perceive greater risk of not being repaid.
.
The problem for Spain is one of “self-fulfilling expectations,” said Jordi Galí, director of the Center for Research in International Economics at Barcelona’s Pompeu Fabra university. “If investors expect Spain to have trouble refinancing its debt, now or somewhere down the road, then Spain will have trouble,” he added. “This is only aggravated by the fact that the reluctance of investors to purchase the country’s public debt leads to an increase in the interest rate it has to pay and thus in the budget deficit and the amount of debt it has to issue.”
.
Elena Salgado, Spain’s finance minister, insisted on Wednesday that Spain would not need rescuing. She told Spanish radio that “we are in the best position to resist against these speculative attacks.” Indeed, some say that one of Spain’s relative strengths is that a large amount of its government debt — 203.3 billion euros ($271.1 billion) — is owed to its own banks, rather than foreign lenders. If the government’s financial condition worsens, the thinking goes, Spanish banks would have a greater incentive to help out by easing terms on the loans than would foreign banks, which might take a harder line.
.
Of course, it is a bit of a double-edged sword; if the Spanish banks need to ease terms to help the government, they could be forced to swallow steep losses, hurting their balance sheets.
.
The likelihood of entering such a vicious circle could also rise next year, when Spain is due to repay lenders 192 billion euros, or about a fifth of the total debt. As a result of increasing interest it would have to pay for new borrowing, Spain faces a rise of 18 percent in the cost of financing its debt, according to the government’s budgetary plan.
.
Investor nervousness is mounting just as Madrid is reining in a budget deficit that reached 11.1 percent of gross domestic product last year. Prime Minister José Luis Rodríguez Zapatero, initially slow to recognize the crisis, narrowly pushed through Parliament last May an austerity package that included 15 billion euros of spending cuts. As a result, Spain’s central government deficit fell 47 percent in the first 10 months of this year, according to government figures released on Tuesday.
.
Ireland also made steep spending cuts, but still needed a bailout. The main reason is that its banks were a lot more troubled than the government realized, and it could not afford the cost of supporting them without help from Europe.
.
The looming question is whether Spanish banks are really as healthy as the government and the banks say they are.
www.nytimes.com/

Entrevista

O neoliberalismo selvagem

Por Patricia Lombroso,
de Il Manifesto
07.2010

Nos encontramos con Noam Chomsky, que ha estado dando una serie de conferencias en el Left Forum con el significativo título de “El centro no puede gobernar” y con ocasión de la aparición en los EEUU de su último libro (Hopes&Prospects), publicado por la editorial Haymarket.

En el ensayo analiza, junto a “las esperanzas y las perspectivas”, los peligros y las posibilidades todavía abiertas de nuestro siglo XXI, el hiato creciente entre Norte y Sur, los mitos y las ilusiones del excepcionalismo norteamericano, incluida la presidencia de Obama, los fiascos de las guerras en Irak y Afganistán, el asalto israelita-norteamericano a Gaza, la nueva división internacional del terror nuclear y la naturaleza de los recientes rescates bancarios.

“La situación que vivimos en los EEUU de hoy da miedo. El nivel de rabia, frustración y disgusto contra las instituciones ha alcanzado cota impresionantes, sin que se vea posibilidad de organizar esa rabia de manera constructiva. Los parecidos con la República de Weimar después de 1925 son asombrosas y extremadamente peligrosas”.

Con esas graves consideraciones de Chomsky abrimos la entrevista.
Noam Chomsky, que acaba de cumplir 81 años, es el intelectual vivo más citado y figura emblemática de la resistencia antiimperialista mundial.

¿Qué paralelos económicos y sociales se dan entre la realidad norteamericana actual y el período de la República de Weimar luego de 1925, que despejó el camino a Hitler?

El apoyo de base de la parte de la población alemana que abrazó la subida al poder de Hitler estaba constituida esencialmente por la pequeña burguesía y la gran industria que se sirvió del nazismo como arma política para la destrucción de la clase obrera en Alemania. La coalición de gobierno se formó mucho antes de la Gran Depresión de 1929.

Con las elecciones de 1925, la Alemania de Hindenburg – y la coalición gubernamental formada — era sociológicamente y casi demográficamente muy semejante a la que apoyó el ascenso al poder en 1933 de un personaje tan oscuro como Hitler.

Pero ya a fines de los años veinte se extendía por Alemania ese malestar original compuesto de desilusiones y de resentimiento contra el sistema parlamentario.

Se presta menos atención a un factor de gran importancia, y es que el nazismo, además de la destrucción de comunistas y socialdemócratas, triunfó también en su propósito de destruir a los partidos de poder tradicionales, conservadores y liberales, que se hallaban ya en franco declive durante la República de Weimar de los años veinte.

Esa es la impresionante analogía histórica con lo que ahora mismo está madurando en los EEUU. Los últimos sondeos de la opinión pública muestran que el asentimiento de la población a la forma de ser gobernada por demócratas y republicanos ha descendido al 20%.
El odio al Congreso y a la dirección seguida por el gobierno de la nación supera el 85%. Como en el período weimariano de Alemania, la población norteamericana está disgustada por el pasteleo entre los dos grandes partidos para salvaguardar sus propios intereses.

La difusa mentalidad que cada vez gana más adeptos entre la clase media norteamericana es la de que los miembros del Congreso deben ser combatidos como “gánsteres” y eliminados.

La composición demográfica de quienes abrazan esas ideas está formada por blancos de la América profunda, personas sin una particular identidad y, sobre todo, sin otras perspectivas políticas que las expresables en clave antigubernamental.

Esos grupos, como famoso Tea party, y otras franjas nacidas del vacío de dirección política, han sido movilizadas e instrumentalizadas por la extrema derecha, con riesgos muy serios.

Las clases industriales norteamericanas se sirven de lo que constituyen inquietudes económicas y sociales legítimas de la pequeña burguesía, a fin de criminalizar a la inmigración, y eso al tiempo que utiliza el excedente de población predominantemente afroamericana que llena las cárceles como un nuevo recuso de mano de obra de ínfimo precio en las cárceles de los estados o en las privatizadas.

¿Por qué utiliza usted el paralelo con la Alemania de Weimar, en particular, para lo que está ocurriendo en los EEUU, y no en otros sitios, como Europa, en donde los principios del neoliberalismo conservador se han visto también ampliamente realizados?

Porque Europa ha conseguido mantener todavía con vida una estructura socialdemócrata. Subrayo también que sólo América Latina, y ya desde hace una década, ha rechazado el modelo ideado en Washington.

Aquí, en los EEUU, las consecuencias de los principios del neoliberalismo salvaje están experimentando – insisto en ello — una visible quiebra.

El capitalismo ha fracasado, pero el desastre irreparable
lo paga esencialmente la mayoría de la población.

Aquí, los proyectos granempresariales en colusión con el gobierno han logrado marginar socialmente a comunidades enteras que se hallan ahora en desbandada, con el único propósito de llevar a cabo la financiarización social y económica de los “ejecutivos” de los sistemas bancarios.

Al propio tiempo, la clase emprendedora norteamericana utiliza la rabia y el disgusto de la mayoría de la población para fomentar el odio antigubernamental, aun a sabiendas del riesgo que eso trae consigo de un triunfo electoral de la extrema derecha del partido republicano.

La situación es preocupante. Porque el daño irreparable provocado por el liberalismo conservador ha provocado el resultado de un déficit público absorbido por China y Japón.

Ahora mismo, la mitad del déficit público norteamericano se debe al presupuesto de Defensa. En el contexto global, equivale al total de todos los presupuestos de Defensa del mundo entero.
La otra mitad del déficit público ha sido originada por la explosión de los gastos sanitarios dimanantes de las ineficiencias de un sistema de salud absolutamente privatizado.

Pero ahora se acaba de aprobar la reforma sanitaria promovida por Obama...

La reforma sanitaria de Obama aprobada por los demócratas no es un cambio profundo del sistema sanitario norteamericano; la industria privada de la sanidad la vive, al fin y al cabo, como una victoria política.

Y en el fondo del escenario, la realidad sigue siendo harto dramática, porque la desocupación sigue avanzando y la recuperación económica no termina de llegar.
* Noam Chomski es profesor emérito de lingüística en el Instituto de Tecnología de Massachussets en Cambridge.
Il Manifest0

...

Só se fala nele

Para John Maynard Keynes o desemprego elevado resultava da falta de demanda de produtos e serviços. Sua solução: que os governos se encarregassem do déficit investindo em obras públicas e outros projetos para aumentar a necessidade de trabalhadores. As propostas respaldaram a política do New Deal do presidente Franklin Roosevelt.

Keynes, John Maynard (1883-1946), economista britânico.
Em 1930, escreveu o “Tratado sobre o dinheiro”, procurando explicar por que a economia funciona de forma irregular, enfrentando alterações nos ciclos econômicos. Em sua obra “A teoria geral do emprego, lucro e moeda” (1936), analisou os problemas relativos às grandes recessões, sustentando a inexistência de mecanismos de ajuste automático que permitam à economia recuperar-se delas.

Afirmava que a poupança não investida prolonga a estagnação econômica e que o investimento das empresas comerciais depende da criação de novos mercados, de novos avanços técnicos e de outras variáveis independentes da taxa de juros ou da poupança.

Dado que o investimento empresarial flutua, não se pode esperar que este possa preservar um alto nível de emprego e receitas estáveis; e propõe que o gasto público deve compensar o investimento privado insuficiente durante uma recessão.

Em 1944, dirigiu a delegação britânica na Conferência de Bretton Woods, onde promoveu a criação do Banco Internacional de Reconstrução e Desenvolvimento (BIRD) e do Fundo Monetário Internacional (FMI). Suas idéias influíram na criação de uma nova escola de pensamento denominada keynesianismo.
G-20: mais do mesmo?

por Cândido Grzybowski
23.06.2010

A grande crise financeira, que estourou em 2008, ressurge com violência, agora com o epicentro na Europa, ameaçando a construção da própria unidade monetária baseada no euro.

Por trás de tudo, um ataque à própria ideia de União Européia, com sua proposta de região e solidariedade entre povos, que permitiu avanços monumentais. Descobrimos, mais uma vez, que, em um mundo interdependente, ninguém escapa.

As tais forças do mercado contaminam e corrompem tudo quando governos aceitam ser conduzidos por elas. Aliás, os agentes do mercado – bancos, financeiras, fundos – viram conselheiros dos próprios governos, como na Grécia, e montam o desastre, mas não pagam a conta. Pior, o próprio projeto de região solidária e da moeda única ficou contaminado quando os principais governantes europeus aderiram à onda neoliberal.

Não é a intenção abordar o lado “cassino” da globalização neoliberal, promotora da financeirização desregulada e sem limites das últimas décadas. O fato é que a economia real, os governos e a qualidade de vida dos povos estão em jogo.

Os altos e baixos, as bolhas e seus estouros, as quebradeiras, todo esse mundo financeiro em crise tem por trás um conjunto de crises articuladas que mostram a insustentabilidade do modo como nos organizamos, produzimos e vivemos.

O que interessa é se perguntar até quando a humanidade vai tolerar e sofrer com este estado de coisas. Por onde vamos começar a inverter as tendências destrutivas de hoje, reveladas nesta “crise de civilização”? Mais imediatamente, onde e quando fixaremos limites ao livre mercado, aos especuladores, aos operadores do “cassino global”?

Os governos parecem começar a acordar. Mas, nos últimos dois anos de crise aberta, o que fazem é a transferência da conta da crise do mercado para o Estado, socializando as perdas e buscando repor as coisas no lugar, sem mudar verdadeiramente.

Faltam novas políticas e governos comprometidos com o bem comum público, apontando para mudanças substantivas no modelo de desenvolvimento e organização da economia.

De toda forma, a principal mudança deve ocorrer na arquitetura do poder mundial e no resgate de sua função reguladora, de forma democrática, para quebrar a lógica cassino e o poder destrutivo da globalização puxada pelo livre mercado.

Mudanças geopolíticas são visíveis e mais aceleradas no contexto de crise, como se os velhos países dominantes econômica e militarmente já não tivessem o monopólio das soluções. O multilateralismo, de forma ainda capenga, volta a merecer atenção.

Mas o que esperar disso tudo? Tomemos o G-20, até aqui a principal novidade no enfrentamento da crise. Novidade? Ou apenas ampliação do G-8 para fazer o mesmo e deixar de fora, sem papel significativo no poder mundial, os outros mais de 170 países?

O G-20 parece, definitivamente, feito para nada mudar e, acima de tudo, não mudar no modo de decidir e gerir o mundo. Trata-se de um clube fechado de governantes, pouco inclinado a ser público, a ser aberto às demandas da sociedade.

As suas reuniões, até aqui, não foram tão repressivas como as do G-8, cada vez mais longe das pessoas e sob forte proteção policial. Mas, definitivamente, não têm o mínimo de transparência e democracia. O convite aos grandes executivos de conglomerados econômicos e financeiros privados não dá legitimidade democrática ao clube do G-20.

No entanto, seus debates e decisões podem nos afetar, e muito. A chanceler alemã Angela Merkel acaba de organizar, em Berlim, dias 19 e 20 de maio, uma conferência internacional sobre a regulação do mercado financeiro. Fora as autoridades financeiras, só executivos de grandes grupos foram convidados a participar das discussões.

Nenhuma abertura para as organizações da sociedade civil, como se não fosse um assunto de extremo interesse e onde a emergente cidadania planetária vem acumulando enorme expertise (o Fórum Social Mundial é exemplo disso).

A conferência em Berlim visa preparar a próxima cúpula do G-20 em Toronto, Canadá, em junho. Dado a sua composição e formato, nada de substantivo é de se esperar em termos de taxação das transações financeiras mundiais e de enfrentamento dos paraísos fiscais, os tentáculos do “cassino global”.

Enquanto isso, continuaremos sendo inundados por notícias sobre a necessidade do sacrifício das condições de vida na Grécia, Espanha, Portugal, Irlanda e até Inglaterra, para que os “mercados” se sintam mais confortáveis. Nos países do grande Sul do mundo, já conhecemos o desastre.

O sistema como um todo precisa de ajuste estrutural para valer, tendo a preocupação com o bem estar e os direitos humanos fundamentais para todos os povos.

Para começar, precisamos evitar buscar soluções onde não estão. A solidariedade entre os povos e a criação de movimentos cidadãos irresistíveis ainda são a principal força de empuxe para um outro mundo.

* Cândido Grzybowski é sociólogo e diretor do Instituto Brasileiro de Análises Sociais e Econômicas (Ibase).

http://seminario10anosdepois.wordpress