"Operazione San Gennaro"

In mostra il tesoro del santo

Per la prima volta dall'8 aprile saranno esposte a Napoli le 15 mila gemme che neppure la camorra osa toccare

Michela Tamburrino
22.02.2011
Foto - In mostra 15 mila gemme studiate per tre anni dai maggiori esperti italiani nei caveau del Banco di Napoli



Questa è la storia del Tesoro di San Gennaro. No, questa è la storia di Napoli e della fede dei napoletani nel santo miracoloso. Meglio, è la storia incredibile dell’amore viscerale di un popolo per il suo protettore, la sua unica àncora di salvezza, l’ultima spiaggia quando incombe la sciagura. È la storia di uno straordinario tesoro rimasto protetto nei caveau del Banco di Napoli per secoli, pezzi di un pregio e di una rarità che sminuiscono il valore dei gioielli della corona inglese e dei preziosi dello Zar. Anzi, talmente è alta la loro rilevanza di opere d’arte, che un misero conto economico servirebbe solo a svilirli e mai a restituirne l’esatta portata. Ora andranno in mostra, a Napoli, dall’8 aprile presso il Museo del Tesoro di San Gennaro per poi allargarsi a musei satelliti della città così da creare un’aura di bellezza a maggior gloria del santo, celebrato, insieme con i suoi 54 santi gregari, solo in un fantastico film del 1966, Operazione San Gennaro di Dino Risi con Totò, Manfredi e una conturbante Senta Berger, la pupa della gang scalcagnata che ruba il tesoro.

Nessuno mai, nella realtà, ha osato tanto ai danni di un santo che vanta 35 milioni di fedeli nel mondo, un po’ perché i pezzi più pregiati, comprese «le dieci meraviglie» d’oro e pietre preziose, erano appunto conservati in banca, un po’ perché sarebbe assurdo per un napoletano rubare ciò che è già suo. Sì, perché il tesoro (21.610 capolavori complessivi) non appartiene alla Curia ma appunto alla città, come stabilito per atto notarile. Correva l’anno 1527 e su Napoli si abbatterono tre flagelli all’unisono: la guerra Francia-Spagna che in parte li riguardava, l’eruzione del Vesuvio con annessi terremoti potenti quanto quello che ha distrutto L’Aquila, e la peste che contò 250 mila vittime. I napoletani sopraffatti dalla disgrazia fecero un voto e per certificarne la validità si rivolsero a un notaio: se il santo li avesse salvati, i napoletani avrebbero costruito una nuova cappella a lui dedicata.

E il santo rispose. Per il tesoro e per la cappella fu istituito un «assessorato», una Deputazione addetta alla manutenzione del patrono e sue pertinenze, esistente tutt’oggi, composta dai discendenti delle undici famiglie nobili che la costituirono più elementi del popolo. E grazie a loro resta il valore enorme, dato anche dalla perfetta conservazione dei pezzi, rari, perché come ricorda il professor Paolo Iorio, direttore del Museo e organizzatore della mostra, «qui non si tratta di ex voto, di cianfrusaglie, bensì di doni che nei secoli regnanti e illustri personaggi fecero a San Gennaro. Il primo, busto d’argento e gemme datato 1305, fu un regalo di Carlo d’Angiò, l’ultimo, una pisside d’oro, corallo e malachite datata 1931, venne da Umberto II di Savoia. Va da sé che il lignaggio dell’offerente era a garanzia del pregio dell’opera stessa. Comunque, la Deputazione vagliava pronta a rifiutare, con grave disdoro per l’offerente, l’opera non ritenuta all’altezza».

Ma chi poteva prendersi la briga di inventariare tanto splendore? I dieci uomini (e donne) d’oro, i più grandi gemmologi nazionali, capitanati da Ciro Paolillo, professore alla Sapienza di Roma: «Siamo rimasti chiusi nel caveau per tre anni a studiare e catalogare 15 mila gemme con tecniche investigative. Attraverso i colori e le inclusioni, abbiamo scoperto la loro origine e il loro donatore, un lavoro unico nel suo genere che ci ha portato anche a scoperte gemmologiche importanti. Per confezionare la Mitra furono impegnati 20 mila ducati, quando la spesa della sanità campana, in epoca di peste, non superava i 650 ducati. E oggi quasi come allora, con l’immondizia e la crisi, ci piace pensare che San Gennaro, omaggiato con la mostra napoletana più importante del secolo, possa sentirsi grato». E possa aiutare.

Nessuno mai osò profanare il tesoro. Persino la camorra, per bocca di un boss locale di peso, ha assicurato la sua neutralità all’organizzatore del museo, più morto che vivo dalla paura di vederselo davanti: «È venuto, ha fatto il giro del museo, si è informato e poi ha detto: “Qui davanti giocavo da bambino, nessuno toccherà il santo e quanto è suo”». Giusto per scoraggiare malintenzionati non indigeni, si è pensato a misure di sicurezza a prova di scasso, ma anche loro, i sette uomini d’oro, non temono assalti: «Ci siamo sentiti, non senza brividi, in un’extraterritorialità protetta per tutto il tempo del nostro lavoro, il taxi che non si faceva pagare, il posto sempre libero ovunque volessimo andare».

Tutto parte in epoca di guerra, dal camorrista «’O Re di Poggioreale» (cui si ispirò Risi per il personaggio di Manfredi), l’unico capace di farsi restituire il tesoro momentaneamente portato in Vaticano per paura dei bombardamenti e che poi i prelati non volevano restituire adducendo motivi di sicurezza. Lui ci riuscì, e dopo essere sparito per mesi e aver fatto pensare al peggio, lo restituì platealmente in piazza il 21 gennaio ’47. Fu portato in trionfo.

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