Norberto Bobbio è ancora qui

Michelangelo Bovero, Torino

«Sono ancora qui». Con queste parole Norberto Bobbio ( foto ) apriva la seconda parte del saggio De senectute, scritta nel 1996, alla soglia degli ottantasette anni. Ci ha lasciati otto anni più tardi, all’inizio del 2004. Eppure noi, oggi, possiamo dire (sottovoce, senza enfasi) «è ancora qui». E noi siamo qui, convenuti da più parti del mondo, per festeggiare i suoi cent’anni, per parlare non solo di lui, ma idealmente con lui dei problemi del nostro mondo, prolungando quel colloquio che molti di noi hanno intrattenuto con lui per lunghi decenni.

Nel 1984, in occasione della festa per i suoi settantacinque anni, Bobbio diede una prova tra le più significative del suo caratteristico atteggiamento verso se stesso. Disse che gli era facile immaginare che uno studioso, in un futuro non lontano, imbattendosi per caso in qualcuno dei suoi libri tra gli scaffali polverosi di una biblioteca, avrebbe mormorato tra sé e sé, come il don Abbondio manzoniano: «Bobbio, chi era costui?». Non credo che accadrà, anche se la storia della fortuna e della sfortuna delle opere di pensiero è a volte capricciosa. Un poco, forse, dipende anche da noi: da quanti ritengono che la lezione di Bobbio debba continuare ad essere ascoltata.

La traduzione portoghese, pubblicata in Brasile, del De senectute reca un titolo che Bobbio trovò particolarmente felice: Il tempo della memoria. Alla memoria, al bisogno morale di mantenerla viva, è dedicata la mostra Bobbio e il suo mondo. Storie di impegno e di amicizia nel Novecento, frutto del paziente lavoro di Paola Agosti e Marco Revelli, che verrà inaugurata questa sera, tra qualche ora. Questo convegno, il nostro convegno inaugurato questa mattina dal Presidente Giorgio Napolitano, ha un’ispirazione, e un’aspirazione, affine ma peculiare. La esprimerei così. Per molti di noi, certo per me, stemperato il dolore del distacco, è venuto il tempo della nostalgia. Bobbio ci manca. Manca non solo alle cerchie dei suoi affetti, dalle più intime alle più vaste, la famiglia, gli amici, gli allievi. Manca, e quanto!, alla cultura e alla vita civile, specialmente di questo paese. Sentiamo nostalgia: certo dell’affetto, ma anche dei concetti di Bobbio. Sentiamo l’esigenza — acuta, in tempi oscuri — di attingere ancora alla sua proverbiale chiarezza. Che non è soltanto uno stile, una dote di nitore nella scrittura. E’ l’effetto, che si riverbera sulla scrittura, del suo modo di pensare, di affrontare i problemi andandovi al cuore, superando equivoci e confusioni, involontarie o interessate. E’ un effetto, e uno specchio, del suo rigore intellettuale e morale. Un effetto, appunto, di rischiaramento delle menti. Di illuminismo, nel significato più semplice ed essenziale della parola.

Questo convegno intende non tanto celebrare la figura intellettuale e morale di Norberto Bobbio; e neppure propriamente ricostruire il suo pensiero, impresa del resto assai ardua per la vastità e complessità dell’opera che Bobbio ci ha lasciato. Vuole piuttosto provare a rinnovare l’effetto illuminante, illuminista, delle sue «categorie mentali». Uso questa formula perché è quella impiegata da Bobbio nel delineare una delle caratteristiche degli scrittori classici. (Inutile dire che in questo momento sento la voce di Bobbio che mi rimprovera aspramente.) Secondo Bobbio, classico è un autore che «ha costruito teorie-modello di cui ci si serve continuamente per comprendere la realtà, anche una realtà diversa da quella da cui le ha derivate e a cui le ha applicate, e sono diventate nel corso degli anni vere e proprie categorie mentali». Sono ancora in grado le categorie di Bobbio, l’albero delle fitte ramificazioni concettuali che innervano l’opera bobbiana, di orientarci nella comprensione della realtà, della nostra realtà, in parte già mutata rispetto al tempo — ai diversi tempi — in cui Bobbio le ha elaborate? In questa domanda è racchiuso, in sintesi, lo spirito del nostro convegno, almeno secondo l’ispirazione di quanti lo hanno promosso.

Abbiamo cercato di formulare quest’idea nel titolo. Le due espressioni che lo compongono non corrispondono, rispettivamente, ad un titolo e un sottotitolo. Dal Novecento al Duemila è piuttosto un pre-titolo: vuole richiamare, per un verso, l’oggetto della mostra, Bobbio e il suo tempo, il Novecento; per l’altro, vuole indicare il passaggio al nostro tempo, quel ventunesimo secolo che Bobbio ha sfiorato ma non gli appartiene, e che rispetto al «tempo della memoria» rivissuto nelle immagini della mostra rappresenta il futuro, il nostro presente, appena cominciato. Il futuro di Norberto Bobbio è il vero titolo del convegno, e sono consapevole che può suonare stravagante. Allude anzitutto al titolo dell’opera di Bobbio forse più largamente conosciuta, Il futuro della democrazia. Del resto, chi scorra il nostro programma troverà facilmente nei titoli di molte relazioni l’eco di altri notissimi titoli di Bobbio.

Bobbio ha sempre avuto verso il futuro un atteggiamento di preoccupata diffidenza. Aveva accettato quella formula, per il saggio che poi darà il titolo al suo libro più famoso, perché legata al convegno nel quale avrebbe dovuto presentarlo come relazione, e che gli organizzatori avevano chiamato 1984: comincia il futuro. Ma subito all’inizio del testo ne prendeva le distanze, citando due grandi classici: prima Hegel, «Il filosofo non s’intende di profezie»; poi Max Weber, «La cattedra non è né per i demagoghi né per i profeti». E aggiungeva: «il mestiere del profeta è pericoloso», perché «ognuno di noi proietta nel futuro le proprie aspirazioni e inquietudini, mentre la storia prosegue il suo corso indifferente alle nostre preoccupazioni». Ammise in varie circostanze che le proprie previsioni, le poche volte che ne aveva azzardata qualcuna, si erano quasi sempre rivelate sbagliate. Superfluo aggiungere che si trattava quasi sempre di previsioni infauste, se non catastrofiche, dettate da quello che Gregorio Peces-Barba ha chiamato il «pessimismo biologico» di Bobbio. Voglio darne un esempio, che riguarda proprio il passaggio dal Novecento al Duemila. In un saggio scritto nel 1981, si legge: «Per quel che riguarda la fine del nostro secolo, ne siamo ancora troppo lontani per trovarci nello stato d’animo proprio della fin de siècle, tanto più che questa volta la fine del secolo coincide con la fine del millennio, e le cose si complicano. A giudicare dall’unico precedente di cui abbiamo testimonianza, le previsioni non dovrebbero essere molto allegre. Si tratta nientemeno della fine del mondo. La prima volta l’attesa andò delusa. Questa volta i pronostici sono meno rassicuranti».
Ma il pessimismo di Bobbio non era solo un dato biologico. Era anche un atteggiamento consapevole ed anzi liberamente assunto, talvolta polemicamente affermato e persino rivendicato come necessario compagno della serietà e del senso di responsabilità. Nel 1977 scrisse un articolo sul «dovere di essere pessimisti». In un’altra occasione affermò: «Non dico che tutti gli ottimisti siano fatui. Ma certamente tutti i fatui sono ottimisti». E tuttavia, la figura del Bobbio pessimista non deve diventare uno stereotipo. Sarebbe un’immagine unilaterale e fuorviante: rischierebbe di mettere in secondo piano la tensione ideale, che attraversa tutta la sua opera, verso «un mondo più civile e più umano».

Il titolo del nostro convegno non allude però alla concezione teorica del futuro, né all’atteggiamento pratico, psicologico e morale, di Bobbio verso il futuro. Con la formula Il futuro di Norberto Bobbio abbiamo inteso indicare, a noi stessi e agli studiosi che hanno accettato di partecipare al convegno, un duplice orizzonte di riflessione. Nel primo, si tratta di saggiare l’efficacia, il vigore attuale delle costruzioni concettuali — le «categorie mentali» — di Bobbio mettendole alla prova nell’analisi del mondo contemporaneo. L’ipotesi da cui siamo partiti è che alcune grandi questioni del nostro tempo possano utilmente essere inquadrate ed affrontate anche a partire dal pensiero di Bobbio: le condizioni presenti della democrazia, dei diritti umani, della pace; il destino del diritto, dello stato di diritto e della costituzione in tempi di globalizzazione; le sorti delle grandi correnti politiche del Novecento, come il liberalismo e il socialismo, e il rapporto tra politica e cultura nel nuovo secolo. In un secondo orizzonte di riflessione, si tratta di valutare la tenuta e forse la stessa credibilità, oggi, della prospettiva ideale di Bobbio, dei suoi principi e dei suoi valori. Non sfuggirà a nessuno che l’intero progetto, non solo del convegno ma anche delle altre iniziative del Comitato per il centenario di Bobbio, è mosso da una preoccupazione morale e civile per il futuro — come ha scritto il presidente Gastone Cottino — della nostra democrazia, della nostra cultura e della nostra civiltà. Un futuro, soprattutto ma forse non soltanto nel nostro paese, quanto mai incerto.

In questi ultimi anni mi è accaduto più volte di domandarmi, con qualche sconforto, che fine abbiano fatto gli ideali di Bobbio. Ad essi, ad un bilancio della loro sorte e alle prospettive per il loro futuro, è dedicata la sessione odierna dei nostri lavori. Ascolteremo le riflessioni degli illustri sudiosi che abbiamo qui invitato a colloquio. Nel 1990 Bobbio scriveva: «Diritti dell’uomo, democrazia e pace sono tre momenti necessari dello stesso movimento storico». Dopo di allora, la necessità di quel triplice vincolo ci è apparsa confermata, in negativo, dal «contro-movimento storico» che abbiamo subito: i diritti dell’uomo sono stati messi a repentaglio e persino il loro valore è stato revocato in dubbio; la democrazia va degenerando in forme più o meno gravi di autocrazia elettiva; la guerra è tornata ad essere considerata una condizione normale della vita internazionale. Ma forse questa rappresentazione del nostro tempo risente del pessimismo che ho ereditato, per via genetico-culturale, dal mio maestro.

La storia è ambigua, ci ha ripetuto Bobbio infinite volte: manda segnali ambivalenti, non sai verso dove proceda, in quale direzione, in quale senso. Anzi, può darsi che abbiano ragione quelli che dicono che non ha alcun senso. Bobbio invitava comunque a non credere che abbia un senso prestabilito, prefissato: un disegno, un destino. Piuttosto, diceva Bobbio, un senso alla storia si può e si deve cercare di attribuirlo: guardando verso il passato, possiamo attribuire un senso alla storia assumendo e comparando diversi criteri e punti di vista; verso il futuro, forse possiamo cercare di dare un senso alla storia riaffermando la nostra fedeltà agli ideali della democrazia, dei diritti e della pace. Gli ideali di Bobbio. Buon convegno e buona riflessione a tutti.
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